Questi coraggiosi partono con un carro e raccolgono
sette
arditi, tra i quali il sergente
maggiore Sisto BERNARDI da Treviso; faccia simpatica e
buona il Bernardi. Ha una ferita ad
una gamba e con ogni
probabilità la perderà. A sera i feriti, medicati
alla meglio, stanno uscendo dal terreno di fuoco e sono adagiati sul
carro assieme all’ufficiale medico.
Il lento veicolo sta risalendo la collina quando una ruota affonda in
una buca, un tremendo fragore seguito da un volare di schegge di
legno, di brandelli di stoffa, di carne umana: il carro è
a pezzi.
Al mattino una pattuglia scende verso il
fiume alla ricerca dei mancanti e fra i resti del carro della
morte viene scoperto, apparentemente intatto, il Bernardi con la gamba
fasciata; in realtà la mina gli ha dilaniato il ventre. Ma
non è stata questa la causa della morte immediata del
giovane, anche se aveva i minuti contati: Bernardi non ha voluto
attendere la fine e si è sparato alla tempia destra.
Il colonnello Boschetti per anni avrà in mente la figura del
suo sergente maggiore. Un ardito che si finisce al buio con gli ultimi
pensieri: «Alla mamma, ai suoi compagni, alla sua ridente
città veneta, nella solitudine più
terribile».
Alfio Caruso sul suo libro:"In cerca di una Patria" riporta un fatto
che ha del misterioso o del miracoloso:
"L'ufficiale Donati riceve l'incarico d'impiantare l'osservatorio.
Sceglie una chiesetta circondata dagli alberi. Vi si dirige,
però si ferma all'improvviso: giurerebbe di aver ascoltato
una voce conosciuta richiamarlo. Si guarda un po' intorno: silenzio e
vuoto, se ne sono andati perfino gli uccellini. Donati
riprende ad avanzare ed ecco nuovamente la voce famigliare: "
Giorgio... Giorgio..." Ma è la mamma... Donati sa benissimo
che sua madre è da un'altra parte, che non
c'è anima viva nel raggio di cinquecento metri, che se sente
le voci è messo male. In un misto d'imbarazzo e di
perplessità si ferma. In quell'istante un obice centra
in pieno la chiesa e la riduce in poltiglia.
Intanto si fanno i conti... delle ultime giornate:
Il Corpo Italiano di Liberazione ha catturato 24 ufficiali e ben 2552
tra graduati e truppa.
Le perdite tedesche: morti 159 ufficiali e 2071 fra graduati e truppa.
Le perdite italiane sono morti 44 tra ufficiali e sottufficiali e 403
uomini di truppa.
Nelle prime ore del 19 viene occupata da truppe italiane Santa Maria
Nuova. I tedeschi impegnano più a est i marinai del Grado,
il XXIX battaglione bersaglieri e il II battaglione del 68°
Legnano. Quì
muore un bergamasco, si chiama Giuseppe RICCARDI. È uno di quei
figli di italiani
all’estero che hanno voluto a tutti i costi venire in Italia
per arruolarsi volontari. È addetto al
vettovagliamento. Ma quel giorno gli fanno fare da ricognitore e di
collegamento. Il
nemico lo abbatte mentre in piedi, tranquillo, sta dirigendo il tiro di
una mitragliatrice su una postazione da lui individuata. Forse
presago di dover morire ha redatto, il 6 dicembre del 1943, un
testamento spirituale, da lui vergato nelle pause d’ozio di
Sant’Agata dei Goti, in esso si leggono queste parole:
«A tutti i miei amici di Francia i miei pensieri affettuosi
con l’augurio e la certezza che come l’Italia
nostra, la sua sorella rinascerà dopo questa dura
prova».
Siamo nella zona di Corinaldo, tra i tanti c’è il
giovane sottotenente Alfonso CASATI, il padre è il nuovo
Ministro della Guerra del governo Bonomi. Il Ministro telefona al
figlio: «Alfonso vieni a Roma c’è un
posto per te»,... l’altro ride e di rimando:
«Papà ma a Roma non si difende
la Patria». E lo troviamo nei pressi di Corinaldo che
stà piazzando i suoi mitraglieri per fronteggiare un
eventuale attacco nemico. Sulla zona regna un silenzio innaturale...
che è bruscamente spezzato da una serie di tiri da obici,
mortai ed armi automatiche. Cade un mitragliere ed il capo pezzo lo
sostituisce gridando: «Munizioni». Il Casati vista
la situazione si mette una cassetta di munizioni in spalla e si
precipita verso la postazione... viene abbattuto da una raffica nemica.
Ad Alfonso Casati, figlio
del Ministro della Guerra, a fine delle ostilità
verrà
concessa la «Medaglia d’Oro al Valore
Militare».
Una pagina di Francesco Florà su questo eroe:
«Così moriva per l’Italia Alfonso Casati
- Aveva già detto ai suoi che non piangessero
s’egli non fosse tornato: aveva
detto al padre nell’ultimo incontro: "se qualcosa mi dovesse
accadere, tu devi continuare il tuo lavoro come s’io fossi
vivo" E il padre fece questo, degno del figliolo».
Scrisse il Croce:
«La perdita di questo giovane è perdita
d’Italia tutta: giacché in giovani di quella
tempra son riposte le speranze per la rinascita
dell’Italia».
Cagli è liberata e torno a vedere le sue bellezze dopo un
anno da quando, sergente allievo ufficiale a Pesaro, avevo partecipato
alle Grandi Manovre in questa città. Qui,
mentre stavo alloggiando i soldati in un capannone, ho la gradita
sorpresa del compaesano Gildo Pasquettin, detto
«Pistoa», così hanno il soprannome tutti
i Pasquettin a Fanzolo, che viene a farmi visita. Finalmente, in tutto
questo marasma trovo un caro amico.
Baci, abbracci e tante storielle da
raccontarci, lui principalmente essendo ardito del battaglione di
Boschetti. Gli chiesi: il più brutto momento trascorso tra i
tanti combattimenti, e senza indugio dice: «Sul Musone dopo
la conquista di Filottrano, sono qui
per un miracolo». A guerra finita Gildo si sposa e sono il
progettista della sua nuova dimora, a Castelfranco Veneto, purtroppo
nel 1970 muore per malattia con mio sommo dolore.
Urbania, Urbino e Perugia sono state liberate ed un giorno assieme al
capitano Salsilli andiamo a visitare Perugia, che vedevo per la prima
volta; col passare degli anni, quale globe-trotter, la
visiterò accuratamente parecchie altre
volte.
In questo periodo ricevo un telegramma dai miei genitori.
Quando nel gennaio ero ad Airola,
attraverso la
Radio Vaticana avevo inviato un messaggio a casa mia comunicante la mia
ottima salute, e dando il mio recapito presso la famiglia De Marco di
Airola.
Questa, aveva ricevuto il telegramma e attraverso il Comando,
gentilmente, me lo aveva fatto recapitare. In quel periodo a Fanzolo
viveva anche mia nonna Elena, novantenne, e dal testo del telegramma
capii che la mamma di mio papà
era morta; la firma del documento portava solo: baci da papà
e mamma.
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