Don Giovanni Bonomi era
il cappellano dell’ 11° Reggimento Artiglieria,
nella
vita professore alle Scuole Superiori in Alba, mio carissimo amico per
i continui contatti che avevo con questo insigne personaggio. Don
Giovanni scrisse parecchi
libri sulla Guerra di Liberazione
e per onorare il suo ricordo traggo alcuni brani dal libro "Dal Volturno al Po" in merito alla battaglia di
Monte Lungo, lui l’aveva vissuta più da vicino
del sottoscritto assieme ai fanti e bersaglieri.
Dal suo libro traggo
questo racconto: "Alle tre del mattino il mio attendente fece capolino nella
tenda. Vuol celebrare la S. Messa? Balzai dalla brandina e sistemai
l’altarino dietro una roccia. Sapevo che nessuno avrebbe
assistito: non era possibile. Celebrai ugualmente e seppi poi che i
più vicini stavano in ginocchio nel buio. Non faceva
eccessivamente freddo e l’aria era tranquilla. Gli artiglieri
stavano pronti ai loro pezzi e i fanti vegliavano nelle trincee.
Regnava il silenzio del mattino di festa,
ma per chi sapeva, l’impressione era di un pericoloso vulcano
pronto ad una spaventosa eruzione.
Alle
cinque e trenta precise il
mostro si sveglia, si scuote e vomita una valanga di fuoco.
Centinaia
di cannoni riempiono la valle del loro rombo. Il terremoto è
scatenato e vampate senza posa squarciano
l’oscurità del crepuscolo mattutino.
La mia tenda vola; tra i soldati corre un brivido. Lo spettacolo
è dei più grandiosi; Monte Lungo si trasforma
letteralmente in un braciere fumante, l’atmosfera si
arroventa.
Mi precipito al posto assegnatomi, all’incrocio di
più mulattiere, il più idoneo per il mio servizio.
Quasi due ore di terrore e di convulsione. Gli uomini si buttano a
terra, si raggomitolano, si turano le orecchie; gli alberi piegano le
fronde e oscillano; le erbe strisciano al suolo; il vento fa mulinello
e giostra sibilando tra le migliaia di proiettili che lo fendono e lo
squarciano; tutta la valle sobbalza, freme. Sembra la fine del mondo,
l’ora della biblica profezia.
L’improvviso
simultaneo silenzio dei cannoni segna
l’ora della fanteria e dei bersaglieri. In due direzioni
diverse i prodi prendono d’assalto l’obiettivo.
Ormai non si sentono che schianti di mortai, crepitare di
mitragliatrici, scoppi di bombe a mano, colpi di fucile.
L’animo di tutti è proteso verso le impervie rocce
e lo spirito vive con ansia struggente il dramma che si svolge.
"Quota... conquistata"
gridano i telefoni di collegamento e le radio
delle pattuglie di punta; "altra quota conquistata"; gli occhi si
inumidiscono di commozione, le mani si stringono convulse,
il cuore sembra balzare in gola: è forse giunta
l’ora della rivincita e della riabilitazione?
Osservavo dal mio posto, un pò rialzato, il movimento,
incurante del pericolo. Non potevo accompagnare i singoli scaglioni,
dovendo
rimanere per forza lì a quell’incrocio, il
più adatto al bisogno.
Li vidi scattare dalle trincee compatti, serrati, in due direzioni.
Li seguivo con l’occhio attaccare il roccione, salire,
ridiscendere, riprendere la salita. Apparivano e scomparivano tra
sporgenze, insenature, groppe e valloncelli a squadre, a gruppi
isolati; si inerpicavano ritti, curvi, a passo lento, a scatti, a
corsa, secondo le necessità: si univano,
si disgiungevano, si fermavano, si nascondevano, riprendevano sempre
progredendo, sempre occupando terreno. Scoppi di granata a destra, a
sinistra, di fronte li disperdevano, li rimpicciolivano. Ondate di
fumo, tempeste, di sassi, si elevavano ondulando, trapuntavano il
terreno; ma i prodi
non cedevano, non si arrestavano.
Dal
mio osservatorio scorgevo i colpi in arrivo da tutte le direzioni.
Volavano sopra di me fischiando, e mi cadevano alle spalle,
raggiungendo i fianchi del mio rialzo, si infrangevano
sulla strada, sulle mulattiere, nei campi. Ma ero troppo occupato a
seguire le vicende e i movimenti di quei figlioli per badarvi. Il tempo
ci tradì. Ad un’alba limpida e
trasparente subentra
una nebbia densa e fitta che, scomparendo improvvisamente,
lasciò scoperti i nostri inoltratisi profondamente.
Il nemico ebbe buon gioco, ogni colpo che scoppiava in mezzo a loro era
un tonfo al mio cuore. Avrei desiderato essere tutto con tutti.
Immaginavo quanti feriti, quanti... agonizzanti... e... fremevo,
m’agitavo. Li perdetti dopo un’ora dietro una
gibbosità. Il
telefonista annunciò: "Stanno per raggiungere
l’ultima quota"
un sussulto... che sia la vittoria?
Balzati, non visti, dai loro nascondigli, i tedeschi contrattaccarono
con sorpresa di fronte, di fianco ed alle spalle, tentando un
accerchiamento.
Ne
venne un duello furente, una mischia corpo a corpo, una lotta
selvaggia. I prodi fanti si dibatterono nella stretta con
sovrumano accanimento e con coraggio leonino. I mortai nemici,
battendo con furore le zone retrostanti, non permisero
l’accesso dei rinforzi; l’artiglieria nostra taceva
avendo perso i collegamenti. Tutte le linee telefoniche erano spezzate.
Il nemico favorito dal tempo e dalla posizione
strategica, dal terreno cavernoso e roccioso, ebbe ragione.
Fu gioco
forza ripiegare sulle posizioni di partenza.
Lo spettacolo desolante di soldati che precipitano in disordine,
sbandati, giù per le balze, di feriti che gridavano, di
morti che venivano dai compagni trascinati non lo
dimenticherò mai.
Chi urlava, chi piangeva,
chi chiamava soccorso.
Mi precipitai verso le quote "Padre, ci aiuti", mi si invoca da una
parte "Padre, corra su, i miei compagni stanno dietro a quella
roccia", mi si grida dall’altra.
Sudato, insanguinato, stordito, correvo da un punto
all’altro, da una roccia all’altra, aiutando,
sollevando, cercando di
trascinare quanti mi fosse possibile al riparo.
Ma
come fare, come arrivare ovunque e a tutti?
Un bersagliere, allievo ufficiale, ferito, chiamava disperatamente per
nome i suoi compagni rimasti feriti o morti sul luogo della mischia.
Con voce soffocata implorava che li portassi giù. Lui stesso
tentò di rifare la via.
L’intervento della nostra artiglieria per impedire al nemico
di avvantaggiarsi non ci permise di raggiungere l’estremo
limite. Ci ritraemmo portando con noi quanti potemmo.
I portaferiti fecero miracoli. Alla sezione di sanità la
lunga teoria delle barelle accrebbe
la sensazione della gravità delle perdite.
All’appello
più di centoventi non
risposero".