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Sei in : La guerra _ Brescia e ritorno a Fanzolo _  Pagina 1 di 1

Arriviamo al mattino a Brescia, ci accampiamo alla periferia con i pezzi, e mentre Agnelli sistema la batteria, corro in centro per trovare un locale per dormire con i miei compagni ufficiali. 
Metto gli occhi su di un bel villino abbandonato, senza mobilio, i suoi proprietari certamente sfollati: hanno preferito la campagna alla città per la paura dei bombardamenti. Dopo un pò entra un ufficiale americano con il mio stesso intento. Non conosco l’inglese ma con gesti: "Sono il primo e non intendo mollare l’osso". Lui mi fa capire che "Grande ufficiale deve venire". Di rimando, alzo il tono della voce: "Ho combattuto assieme a te e quì deve venire il Capo della Divisione Legnano, generale Umberto Utili". 

Visto che non mollo la preda mi saluta, gira i tacchi e se ne va. 
Dopo un giorno dall’arrivo a Brescia, vengo a sapere che il mio paese è stato liberato dagli americani, allora parto in automezzo con destinazione Fanzolo, per rivedere i miei genitori, con la speranza di ritrovarli entrambi sani e salvi. Viaggiano assieme a me alcuni soldati che abitano nelle provincie del Veneto. Prima tappa a Mussolente poi a Castelfranco Veneto. Vado subito alla stazione ferroviaria per avere notizie dei miei. 

Un capo stazione mi dice: "Spiacente ma il telefono non funziona però suo padre sta bene malgrado sia stato ferito da un aereo americano, non abita più in stazione ma a casa del manovale ferroviario". Lo ringrazio e parto di corsa. 

Mi fermo al Capitello di Fanzolo e scorgo mia madre, che per caso è davanti alla porta di casa, alzo la mano in cenno di saluto, lei vedendomi non trattiene un piccolo grido di sorpresa e poi nell’incontro, baci ed abbracci a non finire, mosso da quel trambusto appare anche mio padre, mia madre con la voce rotta dalla commozione grida, con gioia ai vicini di casa l’arrivo del figliol prodigo, gente incuriosita mi viene attorno, io sorrido con gli occhi umidi e ho un "groppo" alla gola che non riesco a parlare. 

Dopo, da mio padre, voglio sapere i particolari della ferita e come ha trascorso tutti questi mesi della mia assenza. 
Ecco il suo racconto: "La stazione ferroviaria di Fanzolo ha visto transitare molti treni tedeschi trasportanti soldati e materiali dalle più svariate qualità. Un giorno un treno con carri cisterna trasportanti un gas, credo cloro, si ferma alla stazione mentre sopraggiunge una squadriglia di apparecchi americani, questi con astuzia bersagliano sia la testa che la coda del convoglio. Alcune schegge forano delle cisterne e ne esce un gas tossico che avvolge tutta la stazione. Io e tua madre ci ripariamo sotto la scala, che porta all’abitazione, dalle bombe che gli aerei lanciavano in ondate successive. Ma non possiamo fare nulla per il gas che ormai c’impedisce di respirare. Dentro non si respira, fuori c’è il bombardamento, una bella situazione; ad un tratto, messo un fazzoletto tra naso e bocca, prendo tua madre sotto un braccio e via di corsa, fuggendo per il viale che porta alla strada pubblica". E la ferita, domando: "Siccome la stazione era stata colpita da varie schegge e per lo spostamento d’aria delle bombe, erano partiti i vetri delle finestre, le porte erano scardinate, non mi sentii più sicuro di rimanere in stazione e trasferii il mobilio in casa di Massimo il manovratore, e questo ora è il mio nuovo alloggio. Il gas che usciva lentamente ogni giorno dalle cisterne colpite, veniva visto da aerei di passaggio, induceva questi ad abbassarsi e partendo all’altezza di Caravaggio, puntavano su Villa "Emo" e mitragliavano con veemenza il treno oramai inservibile e se avevano qualche bomba di resto, di precedenti azioni, per non portarsela a casa giù sul povero treno. Le bombe le abbiamo contate tutte: ben 104. 

Un giorno che vado a piedi in stazione per sentire telefonicamente qualche notizia da Castelfranco, prendo la via del viale alberato sito davanti alla Villa: da dietro le spalle sento l’aereo che picchia: subito mi getto disteso dietro uno dei grossi alberi del viale. Una gragnuola di colpi di mitraglia cadono attorno a me ed una scheggia mi colpisce dietro il collo. Sangue a non finire, aspetto la fine dell’incursione, poi di corsa vado in Villa Emo dove c’è il comando tedesco. Pronti mi medicano e vogliono portarmi con un automezzo all’ospedale a Castelfranco  ringrazio ma preferisco andare in bicicletta, per strada potrei trovare un altro aereo e, vedendo il camion tedesco, ricevere altra batosta. 
A Castelfranco Veneto il Professor Muller mi estrae la scheggia e mi comunica che sono stato fortunato, se la scheggia avesse fatto un altro centimetro mi avrebbe reciso una corda del collo e sarei rimasto paralizzato, con la testa piegata da una parte, per tutta la vita". 

Vengo a sapere da Lucia e Massimo che il loro figlio Beniamino, mio compagno d’armi per un anno, l’8 settembre 1943 a Torino, era stato fatto prigioniero dai tedeschi, subito deportato in Germania e non avevano più sue notizie. Vado a visitare tutti i miei amici di Fanzolo e dopo sette giorni arriva l’automezzo che mi riporta a Brescia, città di belle donne. Una sera gli americani allestiscono in una grande sala con una superba orchestra, un trattenimento danzante (noi italiani avevamo solo l’orchestra dei cannoni) ed un gruppo di ragazze alquanto generose, mi pregano di accompagnarle alla festa. Sono l’unico italiano in mezzo a circa 150 soldati americani, questi mi fanno festa, ho portato una decina di senorite. 

C’era, in quelle feste, una reale voglia di divertimento, di dimenticare le cose brutte, uno scoppio di spontanea euforia fra la gente che voleva ritornare a nuova vita, visto che il peggio era passato. Birra (erano 17 mesi che mi mancava) aranciate, succhi di frutta, caramelle, cioccolato, torte, biscotti vari, sigarette, c’era di tutto e convengo che la guerra oltre che con i cannoni si fa anche con questo e non con "Otto milioni di baionette del fascismo". 

Qui conosco una ragazza che ha il padre rinchiuso in una prigione al Castello perché fascista. Mi prega di aiutarla a liberarlo; mi parla del fascismo ed io per avere le sue simpatie l’assecondo nelle sue idee. Parlo con un mio superiore per suo padre. Alcuni giorni dopo mi viene a trovare e raggiante mi comunica la liberazione del padre. Trascorro con lei alcune sere e sul più bello arriva il solito trasferimento: questa volta la destinazione è Olgiate Olona.