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La giornata si era conclusa in maniera soddisfacente, le perdite relativamente contenute sia di uomini che in materiali. Le perdite italiane per la conquista di Monte Lungo dall’8 al 16 dicembre 1943 furono 82 morti (di questi 44 allievi ufficiali) e 175 feriti. Non mancarono le malignità di qualche politico, che disse frasi poco corrette nei confronti del generale comandante. Si disse infatti, che se di successo questa volta si poteva parlare era perché il generale Dapino era rimasto nella casetta rossa a leggere libri gialli, senza minimamente occuparsi dell’attacco. Il più contento della riuscita fu, in ogni caso, il mio colonnello Valfrè di Bonzo, quello che noi dell’11° Reggimento Artiglieria chiamavamo "Papà Corrado". 
Dopo la battaglia il generale Gheies invia al generale Dapino un telegramma in cui dice: "La ferrea volontà dei soldati italiani di liberare la patria dal giogo nazista, fino alla vittoria, combattendo su terreno aspro ed impervio può ben esser presa ad esempio da tutti i popoli europei che combattono contro l’oppressione tedesca". 

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E qui racconterò un fatto successomi proprio al mattino del 16 dicembre 1943
Alle 8,30 del mattino il mio comandante capitano Franco Salsilli riceve l’ordine di aprire il fuoco su Monte Lungo. Il vice comandante grida: "Ai pezzi - obiettivo Aosta". Tutti i pezzi vengono caricati e orientate le bocche da fuoco nella direzione richiesta i capo pezzo gridano: «Pezzo pronto»... altro grido: "Batteria colpi - 80... - FUOCO". Si ode un frastuono, assieme a noi sparano altre batterie su obiettivi diversi. Sparare elettrizza l’artigliere, e come un centauro quando lo starter abbassa la bandierina e da il via ad una corsa motociclistica. Normalmente l’ordine di far fuoco è di due o quattro colpi, ora invece siamo a 80 colpi, una vera manna. Ad un tratto il 4° pezzo, sotto il mio comando, non spara più. Mi precipito in postazione e che vedo ! un brandello di stoffa che racchiude la carica di polvere che incendiandosi da la spinta al proiettile, anziché bruciarsi alla partenza di quest’ultimo, è rimasta in canna intrappolando il successivo proiettile e non permettendo l’introduzione del bozzolo con le relative polveri da sparo, cannone inservibile con altri 60 colpi da sparare. 

In batteria esiste un arnese chiamato "calcatoio", è un’asta di legno lunga, con all’estremità un cappuccio simile a quello del sacrestano quando in chiesa spegne le candele, questo calcatoio introdotto dalla bocca del cannone permette di spingere il proiettile affinché esca dalla culatta del cannone. Subito prendo il calcatoio e cerco, spingendo, di far uscire il proiettile, ma dopo vari tentativi, effetto negativo. Grido, nel mezzo del continuo frastuono dei tre cannoni della batteria e di tutto il resto del Reggimento: "Datemi la mazza". Gli artiglieri gridano: "No!... fermo... Tenente... se si schiaccia la spoletta saltiamo tutti... allora via tutti, dietro ai ripari, se si salta che sia solo uno". Con tre colpi... tan... tan... tan... ben assestati il proiettile esce con un "Evviva... bravo Tenente". Il cannone è pronto e i 60 colpi vengono sparati con godimento dei miei artiglieri che si ringalluzzivano ad ogni colpo partito. Chi spara è in uno stato molto diverso da chi ne è il bersaglio. Qui c’è spavento, fuga, scompiglio, là c’è movimento, chiacchierio, traffico, allegria. Ora che la ragione ha un pò d’anni in più di quella di allora direbbe: "Tenentino, dopo quello che governo e politici, ti hanno dato a fine guerra, valeva la pena di rischiare tanto, per simili personaggi"? 

Il 24 Dicembre 1943 leviamo le ancore, il fronte si sposta alla periferia di Cassino e noi, per le gravi perdite subite, ci incamminiamo per ritornare ad Airola. Ricordo che il 25 Dicembre, Santo Natale, lo trascorriamo in un casolare semidistrutto in mezzo al fango, quattro stracci sporchi addosso e l’acqua penetrata fino alle midolla, ma in compenso il vitto americano ci offre vino ed un bel pezzo di dolce. L’americano, trasformato adesso in moderno San Martino divide quello che ha con sé e lascia in eredità agli italiani le dotazioni superflue. Si tratta di sigarette, cibarie, scatolame, formaggio giallo, latte condensato o in polvere, o addirittura in zollette da sciogliere in acqua e poi biscotti vitaminici, brodo in cialdini da buttare nella gamella piena d’acqua bollente. Gli stupiti soldati italiani impararono così a distinguere fra razione K, C e D... Le razioni "K": tre scatole un poco più grandi di un’attuale cassetta CD in cui trovi di tutto, servono per i tre pasti giornalieri: cioccolato, sigarette, fiammiferi, una scatola di carne con gelatina, una di brodo in polvere, una di carne di maiale con uovo, una di fagioli e verdure, dei foglietti di carta igienica, sale, pepe, caffè, thè, caramelle, crachers e bruciando l’involucro della scatola, impregnata di cera, con un barattolo, sopra due pietre, puoi avere le vivande calde. 

Il solito pezzo di carne bollita, più gelatina che carne, accompagnato dalla galletta che si sfalda come cartone a contatto con l’acqua ha fatto oramai il suo tempo per il soldato italiano. Questo era il pranzo del soldato americano e italiano, attualmente quest’ultimo, inquadrato con la 5ª Armata. Voglio confrontare detto pasto, con quello del nemico tedesco come riporta il Generale Antonio Ricchezza nel suo libro: «In questi giorni di fine gennaio, il morale delle truppe del Reich varia a seconda dei settori; in qualche caso tali e tante sono le difficoltà che anche i più coraggiosi hanno una crisi di sconforto». Come appare inoltre da queste righe di un diario d’un sottufficiale tedesco, ritrascritte dal Majdalany: «22 gennaio: non ne posso più. Il tambureggiamento dell’artiglieria mi fa ammattire: ho paura, mai ne ho provata tanta come adesso; ho freddo, di giorno non si può lasciare il proprio buco; questi giorni mi hanno distrutto; ho bisogno di appoggiarmi a qualcuno». «25 gennaio: sono pessimista; gli inglesi scrivono sui loro manifestini che tocca a noi o Tunisi o Stalingrado; siamo a metà razione; niente posta; T... ... è prigioniero; presto lo sarò anch’ io...». «27 gennaio: siamo mangiati vivi dai pidocchi; non ci facciamo più caso; razioni sempre scarse; tre pagnotte per quindici uomini; niente cibo caldo; dicono che verranno truppe alpine a darci il cambio; mi hanno portato via il sacco della biancheria: ieri una pagnotta per dieci uomini». 

La vera novità per il soldato italiano consiste nel chewing-gum, la gomma da masticare. 
Nel freddo, sotto la pioggia, masticare continuamente quel pezzettino di gomma, che sa da mentolo, rilassa e calma i nervi. Fra quelli che hanno imparato a ruminare con diligenza c’è un piccolo ossuto napoletano Riccò autista di una carretta e sta portando dei rifornimenti di munizioni per i compagni su Monte Lungo. Giunto a pochi chilometri, sul cavalcavia della ferrovia, l’autocarretta di Riccò è fatta segno a colpi nemici. L’autiere pigia sull’acceleratore e cerca di venirne fuori, di raggiungere al più presto il posto avviamento del suo battaglione. Un colpo, più vicino degli altri, copre l’autocarretta con una nuvola di schegge. 
Riccò si ferma di botto, salta a terra. Il pericolo è grave, un secondo tiro e tutte le munizioni salteranno in aria, ma uno sguardo al serbatoio lo fa sobbalzare. Una minuta scheggia ha perforato la lamiera e il carburante fuoriesce imbevendo a poco a poco il terreno: allora Riccò nonostante dentro di sé vorrebbe darsela a gambe, ha un lampo di genio; tira fuori dalla bocca il chewing-gum, lo pressa a forza nel foro tamponando alla meglio, e risale a bordo. 
Poi schizza via a tutta velocità sobbalzando fra le interruzioni, le mani che tremano sul volante, il viso cereo, il cuore che gli martella in petto. 

Ancora qualche decina di metri e poi è fuori dalla visuale, fuori tiro.

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