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Un giorno il maggiore mi manda al Comando a prelevare due generose "signorite" per portarle in batteria a soddisfare gli arrapati artiglieri. Prendo l’autocarro, un Fiat 26, autista Otello Buchi, da Colle Val d’Elsa, e dopo una diecina di chilometri ho il piacere di conoscere "le due verginelle". 

Una bolognese e l'altra genovese, portate in batteria sotto una tenda, subito incominciano il loro lavoro. Dopo alcuni giorni parlo con il capitano su litigi successi tra i soldati per via delle "sènioritas". Questi riferisce il tutto al Maggiore Vitello e lo prega di rispedire alla base la "merce".

Cosi, dopo una settimana, altro ordine al Tenente Moro: far sloggiare le due pulzelle. Durante il viaggio faccio notare alla bolognese il lavoro pesante fatto, in tutto il periodo che è stata in batteria e lei di rimando: "Caro Tenente, queste sono state caramelle per me, figurati che in Libia, sotto una tenda, dove il sole ti opprimeva dalle sei del mattino fino al tramonto, mi son fatta anche 125 soldati in un giorno". 

Scherzando dissi: "Certamente il tuo...buso è più grande della bocca del mio cannone", ridemmo entrambi. Dopo una diecina di giorni ci spostiamo più ad ovest lungo la strada che da Scapoli va a Cerasuolo ad un chilometro più a nord di quest’ultimo paese. 
Appena arrivato sto scaricando il mio cassone contenente il vestiario, quando una serie di granate scoppia tutt’intorno alla batteria. 
Fuga generale, mi ricovero entro una buca precedentemente scavata dai tedeschi. Dopo un pò tutto tace e come quando si esce da casa dopo un temporale, vado a constatare i danni subiti. Una scheggia era entrata nel cassone posto sopra la buca ove mi ero riparato; apertolo constato che una coperta è stata bucata in più parti. Dico ad Agnelli: "Meglio una serie di buchi sulla coperta che uno sul mio corpo". 

Anche la batteria ha dei lievi danni, i pezzi nemmeno una scalfittura. Mettiamo in batteria i 4 pezzi a sud della strada, più a sud della batteria le due mitragliatrici, a nord della strada, sul lato sinistro i trattori con avantreni porta munizioni, sempre a nord della stessa sul lato destro la tenda degli ufficiali, in alto a circa 150 metri dalla batteria la tenda del Capitano con due artiglieri; i soldati, circa una sessantina, sparsi a destra e sinistra della batteria possibilmente defilati dal tiro nemico. Dopo questa scaramuccia dei tedeschi, per i giorni che seguono, non sono capace di vedere il mio attendente Pini Cesare. Chiedo informazioni a Margini Savino, da Reggio Emilia, attendente del capitano, e vengo a sapere che sul rovescio della montagna, il Pini, ha praticato sul terreno inclinato un buco orizzontale profondo, dove si è sistemato e non esce nè di giorno ne di notte. Quando va a prendersi il rancio, lo vedono sempre di corsa con la testa rivolta verso il probabile arrivo di una granata. Una notte, per poco non resta ucciso; la buca ove alloggia frana per metà, per fortuna lui dormiva con la testa vicino all’apertura. 

Vado a trovarlo e trovo un uomo impaurito, completamente trasformato da quello di Airola; mi esorta alla prudenza, sa che il pericolo non mi spaventa e lui soffre per questo; lui sempre allegro che mi considerava, non un superiore ma un fratello, pronto ad ogni mio desiderio. Le cannonate del primo giorno avevano distrutto un uomo pieno di vita e d’allegria. Parlo con il capitano e lo prego per il suo trasferimento alla base del Gruppo, lontana circa dieci chilometri dalla batteria, almeno là sarà utile a fare qualche servizio. Il giorno dopo parte raccomandandomi ancora la prudenza. 

Non l’ho più visto, alla liberazione di Firenze, chiese il congedo... Ebbi un contatto epistolare parecchi anni dopo, seppi che era poliziotto nella Celere a servizio della "Buon Costume". 
La paura delle granate non gli avevano fatto perdere il vizio. Durante il periodo trascorso in questa postazione andavo a far delle passeggiate sulle colline vicine dove c’erano stati dei combattimenti tra tedeschi e fanti americani, località monte Monna Casale. Un giorno, inoltrandomi su un sentiero a mezza costa, tra gli arbusti di una siepe vedo un corpo di un tedesco raggomitolato su se stesso, morto da parecchi giorni con a terra sparsi tutti gli occorrenti per farsi la barba. 

Una granata l’aveva colto in pieno e teneva in mano ancora il pennello per farsi l’insaponata. Non lo tocco memore delle mine che i tedeschi mettevano sotto i morti. Ma credo che per questo non avevano avuto il tempo; più avanti trovo, appena giù dal sentiero, un’altro corpo con la testa fasciata, per una ferita, sopra una barella eventualmente gettata dai due portatori del ferito che bersagliati dalle granate americane avevano abbandonato il compagno, probabilmente morto, ed erano fuggiti.

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